Divisione della casa familiare

Mentre la comunione legale tra coniugi si scioglie, ai sensi dell’art. 191 C.C., per effetto della separazione personale o del divorzio, spesso le parti restano per anni comproprietari della quota indivisa della casa coniugale.

Lo Studio Legale assiste sia stragiudizialmente che giudizialmente i partecipanti alla comunione che intendano ottenere la divisione dell’immobile.

Vi sono infatti due modalità:

– la divisione contrattuale, a cui i partecipanti giungono mediante accordo e che può essere perfezionata davanti a Notaio;

– la divisione giudiziale, a cui le parti pervengono in caso di disaccordo e che prevede un giudizio strutturato in due fasi (la prima, avente ad oggetto l’accertamento del diritto spettante a ciascuno; la seconda, l’attuazione dello stesso e, quindi, la sostituzione della comunione con una proprietà esclusiva).

Nella divisione giudiziale, devono essere chiamati in giudizio in litisconsorzio necessario tutti i partecipanti e il giudice ordinario pronuncia alla fine una sentenza.

In ogni caso, qualora oggetto della divisione sia un unico cespite immobiliare (ad esempio, un appartamento con un’unica entrata), il frazionamento dell’immobile può essere disposto solo quando sia possibile, attraverso tale atto, far derivare a ciascun partecipante un bene che perda il minimo possibile dell’originario valore e funzionalità.

Va osservato infine che nel caso in cui il condividente di un immobile abbia goduto, durante la comunione, dell’intero bene in via esclusiva, senza un titolo giustificativo (come, ad esempio, nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio, ai sensi dell’art. 155 quater C.C.), è tenuto a corrispondere all’altro, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi frutti civili, un’indennità di occupazione con riferimento ai prezzi di mercato correnti al tempo della divisione (cfr. Cass. 24 maggio 2005, n. 10896 e Cass. 4 febbraio 2005, n. 2354).

 

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