Riduzione del superminimo: una possibilita’ in tempo di crisi

Riduzione del superminimo: una possibilita’ in tempo di crisi

Il superminimo viene spesso individuato come una voce da contenere e, se possibile, ridurre, soprattutto in tempi di crisi.

Ecco gli aspetti più problematici dell’istituto, anche alla luce delle criticità applicative più ricorrenti.

Assorbimento del superminimo

Con riferimento alla possibilità di «assorbire» il superminimo in occasione dei rinnovi contrattuali, si afferma quanto segue:

1. il superminimo è normalmente soggetto al principio generale dell’assorbimento nei miglioramenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva. Quindi, gli aumenti retributivi che sono stabiliti, a qualunque titolo, dal contratto collettivo, non si sommano al superminimo goduto dal lavoratore, ma lo assorbono, cioè lo riducono in parte o in tutto;

2. l’assorbimento del superminimo non si verifica se le parti del rapporto di lavoro hanno stabilito che il superminimo non è assorbibile;

3. la scelta delle parti di non qualificare come assorbibile il superminimo può risultare da un’espressa clausola del contratto individuale, oppure da un comportamento concludente del datore di lavoro che -nonostante la mancanza di un’espressa previsione — abbia in occasione dei precedenti rinnovi contrattuali collettivi sempre adottato la regola del cumulo e non dell’assorbimento;

4. l’assorbimento del superminimo può essere escluso anche dal contratto collettivo, il quale può prevedere che l’aumento retributivo non assorbe i superminimi individuali goduti dai lavoratori;

5. non sono mai assorbibili i compensi legati a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente.

In tal caso, il superminimo non è un generico miglioramento della posizione retributiva del lavoratore, ma ha un titolo specifico, e quindi diventa un elemento intangibile della retribuzione.

Questa ricostruzione tocca alcuni temi molto problematici e discussi.

E’ sicuramente condivisibile che il superminimo si riduce a seguito dei rinnovi contrattuali, a meno che le parti non abbiano espressamente escluso questo meccanismo; l’assorbimento del superminimo è, infatti, legittimo, in ragione della natura migliorativa che assume tale trattamento rispetto ai minimi contrattuali.

Pertanto, mentre gli incrementi retributivi generati dai contratti collettivi non possono essere ridotti dal datore di lavoro, gli incrementi liberamente pattuiti tra le parti individuali possono essere determinati in modo tale da ridursi in misura equivalente all’aumentare di un’altra voce retributiva.

L’assorbimento trova l’unico limite nel rispetto del trattamento minimo complessivo spettante in ragione della disciplina collettiva tempo per tempo vigente; questo limite non può mai essere derogato, al pari di quanto accade per tutti i lavoratori.

La giurisprudenza non pone vincoli circa gli aumenti retributivi che possono determinare l’assorbimento del superminimo; ad esempio, viene considerato lecito l’assorbimento del superminimo per bilanciare differenze retributive per straordinario, superiore inquadramento ecc. tutti elementi retributivi di carattere collettivo.

In genere, nella lettera di variazione retributiva o di assunzione, si precisa chiaramente che il superminimo costituisce anticipazione di futuri aumenti retributivi prodotti dalla contrattazione collettiva, o che lo stesso potrà essere assorbito dai medesimi aumenti. In mancanza di questa precisazione, vale la regola generale che consente l’assorbimento: il comportamento concludente del datore non fa che confermare l’applicabilità di tale regola.

Riduzione del superminimo individuale

Con riferimento alla possibilità di ridurre l’importo del superminimo individuale, si afferma quanto segue:

(i) il superminimo è nella piena disponibilità delle parti, non riguardando l’applicazione di disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi. Pertanto, è sempre possibile che le parti, dopo aver stabilito in un accordo individuale l’erogazione del superminimo, ne prevedano con un successivo accordo l’eliminazione totale o parziale;

(ii) il consenso del lavoratore ad un accordo di riduzione del superminimo può intervenire anche per comportamento concludente dello stesso lavoratore, che consiste nel fatto che egli continui a lavorare mostrando di adeguarsi alle nuove condizioni retributive;

(iii) il superminimo individuale non può essere ridotto dalla contrattazione collettiva, di qualunque livello, né tantomeno dal datore di lavoro con atto unilaterale;

(iv) l’accordo che modifica il superminimo non rientra nell’ambito dell’art. 2113 c.c., poiché non dispone di diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore, ma regola semplicemente il rapporto di lavoro per il futuro;

(v) la rinunzia al superminimo individuale da parte del lavoratore o la transazione effettuata in azienda -e quindi non nelle sedi qualificate di cui all’art. 2113, comma 4, c.c. (sede giudiziale, amministrativa, sindacale, o di certificazione) -è immediatamente valida e non può essere impugnata dal lavoratore.

Si condivide la tesi secondo cui il superminimo esula dalla sfera di applicazione del comma 4 dell’art. 2113 c.c., in quanto la sua fonte è il contratto individuale e, quindi, la rinuncia al diritto non necessita di convalida; il testo letterale dell’art. 2113 dice chiaramente che sono soggetti al regime di annullabilità di tale norma solo gli atti di disposizione di diritti scaturenti da norme di legge inderogabili o da contratto collettivo.

La nozione di inderogabilità deve essere riferita non ai diritti oggetto dell’atto di disposizione, ma concerne la fonte (legge o contratto collettivo) da cui il diritto stesso promana; pertanto, ogni volta che la legge o il contratto collettivo non prevedono la libertà di disporre di un dato diritto, questo ultimo è soggetto al regime di annullabilità di cui all’art. 2113 c.c.

Al predetto diritto si applica un regime di indisponibilità, che comporta l’impossibilità per il lavoratore di disporre di esso mediante negozi dismissivi.

Sono invece esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. -e sono quindi soggetti al regime di impugnazione generale -gli atti di disposizione aventi ad oggetto i vantaggi conseguiti in seguito a libera pattuizione individuale (sulla base del presupposto che il lavoratore, come è stato capace di concordare il diritto, è altrettanto idoneo a disporne), che comportano condizioni più favorevoli di quelle assicurate dalle norme imperative.

Le ipotesi concrete riconducibili a fattispecie di questo tipo sono varie e numerose: si pensi alle eventuali indennità aggiuntive rispetto a quelle disposte dai contratti collettivi, ai premi di produzione, agli atti di previdenza volontari del datore di lavoro, alle misure con cui il datore stesso abbia riconosciuto condizioni di lavoro migliori rispetto a quelle previste dal contratto collettivo applicabile. E’ evidente che tra queste misure rientrano anche le attribuzioni di superminimi.

Va peraltro considerato che, nella prassi, le rinunce aventi ad oggetto i superminimi sono sottoscritte avanti alle sedi di conciliazione: tale scelta, condivisibile, scaturisce dall’esigenza di escludere in ogni caso la possibilità di impugnare la rinuncia al superminimo, sulla base di eventuali -seppure poco fondate- diverse ricostruzioni del diritto rinunciato e del regime di annullabilità ad esso applicabile.

Un’altra tesi del parere che merita di essere segnalata è quella secondo cui la riduzione del superminimo può essere accettata dal lavoratore per fatti concludenti; ad avviso di chi scrive questa conclusione non è scontata. E’ sicuramente vero, sul piano teorico, che il comportamento concludente del lavoratore può avere un contenuto analogo ad una manifestazione di volontà; affinché tale comportamento possa assumere rilevanza negoziale, tuttavia, è necessario che sussistano circostanze precise, concordanti e obiettivamente concludenti, che dimostrino l’intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo (Cass. 12 luglio 2002, n. 10193). Pertanto, il comportamento concludente potrebbe acquistare una valenza negoziale qualora, in assenza di una clausola contrattuale di assorbibilità, il lavoratore si conformasse spontaneamente ad ogni rinnovo contrattuale all’applicazione dell’assorbimento.

Peraltro, va osservato che la possibilità di qualificare alcuni comportamenti concludenti del lavoratore come manifestazione di volontà di dismettere uno o più diritti non è pacifica.

Secondo un orientamento giurisprudenziale abbastanza datato, deve ammettersi la possibilità di effettuare la rinuncia tacita (cd. per fatti concludenti), a condizione che il comportamento del lavoratore faccia emergere senza equivoci la volontà di dismettere uno o più diritti o quella di fare acquiescenza ad un determinato provvedimento del datore di lavoro.

Tale orientamento è stato progressivamente corretto da interpretazioni meno tranquillizzanti; in particolare, si è affacciata la tesi del cd. squilibrio contrattuale, in virtù della quale si ritiene che la rinuncia tacita non può applicarsi in presenza di un rapporto di lavoro, in quanto lo squilibrio contrattuale esistente tra le parti non consente di attribuire conseguenze giuridicamente rilevanti a comportamenti di semplice inerzia del lavoratore. Così, la giurisprudenza, anche quando ammette la rinuncia tacita, evidenzia che il comportamento del lavoratore può essere influenzato dallo stato di soggezione in cui egli, necessariamente, si trova in ragione della propria debole posizione contrattuale (Cass. 6 luglio 1997). Insomma, il comportamento concludente può rilevare, ma solo se assume un contenuto univoco ed oggettivo e, soprattutto, se tale comportamento è stato adottato spontaneamente, e non per la semplice paura di una reazione negativa del datore di lavoro.

In siffatta ipotesi si esclude la possibilità di convalidare le eventuali rinunce e transazioni del superminimo avanti ad una delle sedi qualificate (Direzione provinciale del lavoro, sedi sindacali, commissioni di certificazione), in quanto si tratterebbe di una rinuncia ad un diritto futuro.

Ma sebbene sia sicuramente vero che i diritti futuri non possono essere rinunciati (anche se un vecchio orientamento dottrinale del passato riteneva possibile la rinuncia, sulla base di quanto previsto dall’art. 1348 c.c., che consente di dedurre nel contratto prestazioni di cose future), è infatti ormai pacifico in dottrina e giurisprudenza che non possono essere oggetto dell’atto di disposizione i diritti non ancora sorti (cd. diritti futuri), in quanto la mancanza attuale nel patrimonio del lavoratore del diritto lo priva della legittimazione a disporre dello stesso. Il problema che si pone nel caso del superminimo è la possibilità di considerare il trattamento come un diritto futuro. Possono qualificarsi come diritti futuri quei diritti che non sono ancora entrati a far parte del patrimonio giuridico del lavoratore; nel caso del superminimo, la titolarità giuridica del diritto è pienamente entrata a far parte del patrimonio del lavoratore sin dal momento della sua concessione, e quindi il diritto è più attuale che mai. Anche le quote mensili di superminimi relativi a periodi futuri sono già nel patrimonio giuridico del lavoratore, dal momento il cui è stato riconosciuto il diritto alla loro percezione: l’erogazione materiale è cosa diversa dalla titolarità del diritto.

Altrimenti, si dovrebbe qualificare tutta la retribuzione non ancora percepita come diritto futuro.

Superminimo «collettivo»

Questo parere si conclude richiamando l’istituto del c.d. superminimo collettivo, ovvero di quelle somme aggiuntive rispetto ai minimi tabellari erogate sulla base di un contratto collettivo di secondo livello.

Rispetto a questo istituto, si osserva che:

(i) la previsione del superminimo non costituisce una clausola del contratto individuale, ma fa parte integrante della disciplina collettiva applicata al rapporto di lavoro;

(ii) le parti individuali non possono stabilire una riduzione del superminimo previsto dal contratto collettivo (art. 2077 c.c.), mentre la clausola sul superminimo collettivo può essere modificata, anche in senso peggiorativo, dalla successiva contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro;

(iii) le rinunzie e transazioni che hanno ad oggetto il superminimo collettivo rientrano nel campo di applicazione dell’art. 2113 c.c., dato che il diritto economico del lavoratore su cui incide la rinunzia deriva (non da contratto individuale, ma) da contratto collettivo (art. 2113, comma 1, c.c.).

La rinunzia o la transazione, quindi, per essere immediatamente valida e non impugnabile dal lavoratore nei sei mesi successivi deve essere effettuata in una delle sedi qualificate di conciliazione.

Avv. Stefano Salvetti